L'EREDITA'ARTISTICA E CULTURALE
La Villa Litta di Affori
Dagli scritti dell'arch. Ambrogio Annoni:
"L'Arcivescovo di Milano Giovanni Visconti alla metà del secolo XIV aveva eretto in Affori una sua splendida villa. A me sembra di ravvisarne gli avanzi in due archi di accuratissima fattura [in via E.T. Moneta] ed in una Madonnina di terracotta che la nobile Donna Teresa Litta Gherardini, in alcune ricostruzioni, faceva murare ai primi dell'800 quale 'praesidio
devoti populi' [locandina murata sulla parete della Caserma dei Carabinieri in via Cialdini]. Sull'area della Villa Viscontea (o poco discosto) sorse quella che oggi chiamiamo la Villa Litta di Affori che nel 1927 divenne proprietà del Comune di Milano, dopo 218 anni di vita mondana.
Fu infatti ceduta al Comune dall'Amministrazione Provinciale in quell'anno ma, fino al 1905 apparteneva al nobile Giovanni Litta Modignani (morto nel corso dello stesso anno) che l'aveva avuta in dote dalla propria moglie,
una delle nipoti di Luigi Taccioli. Questi ne era venuto in possesso per acquisto (e non per cessione come accaduto in passato) quando, morta in Parigi nella prima metà del secolo scorso, Donna Vittoria Visconti d'Aragona, cessò con essa la schiatta dei feudatari di Affori".
Il palazzo barocco:
"Fatta costruire circa il 1687 da Pietro Paolo Corbella, Segretario della Cancelleria Segreta, ...Marchese del Feudo di Affori da lui stesso comprato..., la Villa risente dei tempi in cui venne eretta: l'architettura barocca andava smorzandosi
nello stile del '700 e si rammorbidiva nel famoso Rococò di Luigi XVI. La fastosità esagerata e contorta aveva finito per stancare e la Villa, nella sua parte esterna, si presenta semplice e liscia, resa svelta, a soli tre piani, dai corpi rientranti che, essendo centrali, sono alleggeriti da due simmetrici porticati, uno per facciata; pochi i balconi, con parsimonia
sapiente sparsi lungo i lati, tolgono monotonia alla semplicità fin quasi eccessiva di questi con le loro linee curve e leggiadre. Lo stile delle sale e delle stanze interne, invece, si manifesta lussureggiante, straricco e pur gaio, leggero ed attraente; si direbbe che qui lo stile dei due secoli si sia fuso in uno, in cui la composizione larga e fantastica del '600 è
contemperata dall'esecuzione aggraziata e dai colori un po' meno vivi ed appariscenti del '700. L'ornato scalone che si apre a sinistra dell'atrio porticato d'accesso conduce all'appartamento superiore, dove si resta attratti dalla novità e ricchezza dell'anticamera: un fregio ad olio del NUVOLONE (detto il Panfilo...) che corre lungo tutte le pareti, appena sotto
il soffitto in legno fantasticamente dipinto ad arabeschi... Spalancati I ricchi battenti ci si presenta dinanzi una sala grandiosa; dall'altissimo soffitto tutto in legno decorato, pende un magnifico lampadario in ferro battuto e verniciato: finge un gran mazzo di fiori artisticamente avviluppati attorno alle candele... Quattro balconcini si aprono verso l'interno del salone in alto, ai lati di due grandi affreschi rappresentanti scene mitologiche di mare... Completa la disposizione artistica del salone un vasto camino, la cui sobrietà di linee e di colori nei marmi, contrasta vivamente con la sontuosità di quello e dà maggior risalto alla sua ampiezza. Le sale erano adorne di bei quadri di paesaggio di Rosa da Tivoli ed altri di
scuola del Poussin e pitture d'una certa grandiosità decorativa...
Il Parco:
"E ora scendiamo nel vasto parco tracciato 'all'inglese' dal Conte Ercole Silva... ... Esso presenta delle vedute veramente incantevoli e dei gruppi di paesaggio sui quali l'occhio riposa, deliziandosi. Prima certo era 'all'italiana' coi lunghi viali
regolari e la monotona simmetria delle aiuole e le siepi di bosso tosato e gli alberi rotondati a cono o quadrati a dado... ...Ai viali di carpini trecciati a pergolato, vennero sostituiti gli svelti viottoli in mezzo ai prati ombreggiati da robusti pini. Quindi, la compassata simmetria dell'antico 'all'italiana' si preferì sostituire con la fantasiosa irregolarità 'all'inglese'".
I Sirenei: ormai abbandonati a sé stessi, in rovina e miseramente dimenticati.
L'Artistica Cancellata del '700: opera del '700, la cancellata in ferro battuto fu asportata per dotarne l'entrata
padronale di Villa Clerici a Niguarda, fatto che all'epoca produsse non poche polemiche.
Da una mappa del '700:
da una mappa catastale austriaca del 1720 risulta che la Villa presentava già lo schema ad U con ali inserite senza aggetti. Solo l'ala Est era annessa al fabbricato padronale, l'altra era destinata ai servizi ed era continuata da un edificio rustico
scomparso in seguito. Il porticato sulle due fronti era pure presente, ma a sette portici, interessando quasi tutta la facciata Sud, mentre l'altra a Nord appariva tutta porticata, risvoltando l'arcatura anche sull'ala nobile.
Mancava il viale-corridoio laterale e l'accesso dal paese avveniva tramite uno slargo, chiuso da un'esedra molto accentuata, direttamente raccordata alle ali, già nella posizione della posteriore cancellata settecentesca. Non
vi era il lungo vialone prospettico assiale e il giardino all'italiana a sud ella Villa vi appare molto ridotto. Della trasformazione della Villa seicentesca nelle forme attuali non esiste traccia alcuna. Nel 1966 la villa appare così a Raffaele Bagnoli: "...oggi più nulla rimane delle antiche decorazioni, né delle sale... gradualmente sono stati abbattuti alberi
plurisecolari... Agli inizi del secolo un terribile ciclone aprì un grande vuoto fra il già espoliato Parco facendo strage di alberi secolari... Altra espoliazione la compirono gli uomini, allorché l'Amministrazione Provinciale vendette ai privati alcuni territori ai lati del Parco, riducendone la vastità...". Nel 1915 dalla Deputazione Provinciale la Villa fu adibita a
ricovero per malati di mente in attesa di definitiva sistemazione nell'Istituto Psichiatrico Paolo Pini ed il maestoso Parco venne affidato alle loro cure. Ora la superficie totale risulta di mq 81.543, di cui 2.925 coperti.
Proprietari e passaggi di proprietà:
Villa Litta fu eretta nel 1687 dal Marchese Pietro Paolo Corbella. Nel 1700 gli succedette il figlio Carlo che muore nel 1754; gli succede il figlio Luigi al quale succede l'unica figlia Barbara Marianna, la sposa ventenne del Conte Francesco d'Adda, al
quale passa la proprietà della Villa in seguito all'immatura scomparsa della consorte. In seconde nozze il Conte d'Adda sposa Donna Teresa Litta che eredita la proprietà al decesso del consorte. E' questo il periodo di maggior
splendore della Villa. Donna Teresa, nel 1782, in seconde nozze, unisce la ama del proprio casato - Litta Visconti Arese - a quello del Marchese Maurizio Gherardini di Verona, che compartecipa all'eredità della Villa. Alla morte del marchese subentra come erede la figlia Vittoria - sposa in prime nozze del Marchese Gerolamo Trivulzio ed in seconde nozze del Marchese Visconti d'Aragona Alessandro. Donna Vittoria muore a Parigi nel 1836, senza testamento. A questo punto il passaggio di proprietà della Villa avviene per acquisto e non per successione. Vi subentrano i Taccioli, famiglia di
banchieri di Milano, a seguito di asta pubblica. Luigi Taccioli, morto in Affori nel 1847, lascia in eredità ai figli Enrico e Gaetano, il patrimonio. Spartitasi la proprietà, questa passa a Enrico che, alla propria morte, la cede alla figlia Margherita, la quale nel 1873 va in sposa al nobile Litta Modignani Giovanni. Morta Margherita nel 1882, la Villa passa al Litta Modignani che, pochi giorni prima della propria morte, nel 1905, essendo senza discendenti diretti e per evitare eccessivi oneri successori ai nipoti (figli di Luigi e di Paolo), cede la proprietà all'Amministrazione Provinciale di Milano, la quale in seguito, nel 1927, la cede in proprietà al Comune di Milano.
Dagli scritti dell'arch. Ambrogio Annoni:
"L'Arcivescovo di Milano Giovanni Visconti alla metà del secolo XIV aveva eretto in Affori una sua splendida villa. A me sembra di ravvisarne gli avanzi in due archi di accuratissima fattura [in via E.T. Moneta] ed in una Madonnina di terracotta che la nobile Donna Teresa Litta Gherardini, in alcune ricostruzioni, faceva murare ai primi dell'800 quale 'praesidio
devoti populi' [locandina murata sulla parete della Caserma dei Carabinieri in via Cialdini]. Sull'area della Villa Viscontea (o poco discosto) sorse quella che oggi chiamiamo la Villa Litta di Affori che nel 1927 divenne proprietà del Comune di Milano, dopo 218 anni di vita mondana.
Fu infatti ceduta al Comune dall'Amministrazione Provinciale in quell'anno ma, fino al 1905 apparteneva al nobile Giovanni Litta Modignani (morto nel corso dello stesso anno) che l'aveva avuta in dote dalla propria moglie,
una delle nipoti di Luigi Taccioli. Questi ne era venuto in possesso per acquisto (e non per cessione come accaduto in passato) quando, morta in Parigi nella prima metà del secolo scorso, Donna Vittoria Visconti d'Aragona, cessò con essa la schiatta dei feudatari di Affori".
Il palazzo barocco:
"Fatta costruire circa il 1687 da Pietro Paolo Corbella, Segretario della Cancelleria Segreta, ...Marchese del Feudo di Affori da lui stesso comprato..., la Villa risente dei tempi in cui venne eretta: l'architettura barocca andava smorzandosi
nello stile del '700 e si rammorbidiva nel famoso Rococò di Luigi XVI. La fastosità esagerata e contorta aveva finito per stancare e la Villa, nella sua parte esterna, si presenta semplice e liscia, resa svelta, a soli tre piani, dai corpi rientranti che, essendo centrali, sono alleggeriti da due simmetrici porticati, uno per facciata; pochi i balconi, con parsimonia
sapiente sparsi lungo i lati, tolgono monotonia alla semplicità fin quasi eccessiva di questi con le loro linee curve e leggiadre. Lo stile delle sale e delle stanze interne, invece, si manifesta lussureggiante, straricco e pur gaio, leggero ed attraente; si direbbe che qui lo stile dei due secoli si sia fuso in uno, in cui la composizione larga e fantastica del '600 è
contemperata dall'esecuzione aggraziata e dai colori un po' meno vivi ed appariscenti del '700. L'ornato scalone che si apre a sinistra dell'atrio porticato d'accesso conduce all'appartamento superiore, dove si resta attratti dalla novità e ricchezza dell'anticamera: un fregio ad olio del NUVOLONE (detto il Panfilo...) che corre lungo tutte le pareti, appena sotto
il soffitto in legno fantasticamente dipinto ad arabeschi... Spalancati I ricchi battenti ci si presenta dinanzi una sala grandiosa; dall'altissimo soffitto tutto in legno decorato, pende un magnifico lampadario in ferro battuto e verniciato: finge un gran mazzo di fiori artisticamente avviluppati attorno alle candele... Quattro balconcini si aprono verso l'interno del salone in alto, ai lati di due grandi affreschi rappresentanti scene mitologiche di mare... Completa la disposizione artistica del salone un vasto camino, la cui sobrietà di linee e di colori nei marmi, contrasta vivamente con la sontuosità di quello e dà maggior risalto alla sua ampiezza. Le sale erano adorne di bei quadri di paesaggio di Rosa da Tivoli ed altri di
scuola del Poussin e pitture d'una certa grandiosità decorativa...
Il Parco:
"E ora scendiamo nel vasto parco tracciato 'all'inglese' dal Conte Ercole Silva... ... Esso presenta delle vedute veramente incantevoli e dei gruppi di paesaggio sui quali l'occhio riposa, deliziandosi. Prima certo era 'all'italiana' coi lunghi viali
regolari e la monotona simmetria delle aiuole e le siepi di bosso tosato e gli alberi rotondati a cono o quadrati a dado... ...Ai viali di carpini trecciati a pergolato, vennero sostituiti gli svelti viottoli in mezzo ai prati ombreggiati da robusti pini. Quindi, la compassata simmetria dell'antico 'all'italiana' si preferì sostituire con la fantasiosa irregolarità 'all'inglese'".
I Sirenei: ormai abbandonati a sé stessi, in rovina e miseramente dimenticati.
L'Artistica Cancellata del '700: opera del '700, la cancellata in ferro battuto fu asportata per dotarne l'entrata
padronale di Villa Clerici a Niguarda, fatto che all'epoca produsse non poche polemiche.
Da una mappa del '700:
da una mappa catastale austriaca del 1720 risulta che la Villa presentava già lo schema ad U con ali inserite senza aggetti. Solo l'ala Est era annessa al fabbricato padronale, l'altra era destinata ai servizi ed era continuata da un edificio rustico
scomparso in seguito. Il porticato sulle due fronti era pure presente, ma a sette portici, interessando quasi tutta la facciata Sud, mentre l'altra a Nord appariva tutta porticata, risvoltando l'arcatura anche sull'ala nobile.
Mancava il viale-corridoio laterale e l'accesso dal paese avveniva tramite uno slargo, chiuso da un'esedra molto accentuata, direttamente raccordata alle ali, già nella posizione della posteriore cancellata settecentesca. Non
vi era il lungo vialone prospettico assiale e il giardino all'italiana a sud ella Villa vi appare molto ridotto. Della trasformazione della Villa seicentesca nelle forme attuali non esiste traccia alcuna. Nel 1966 la villa appare così a Raffaele Bagnoli: "...oggi più nulla rimane delle antiche decorazioni, né delle sale... gradualmente sono stati abbattuti alberi
plurisecolari... Agli inizi del secolo un terribile ciclone aprì un grande vuoto fra il già espoliato Parco facendo strage di alberi secolari... Altra espoliazione la compirono gli uomini, allorché l'Amministrazione Provinciale vendette ai privati alcuni territori ai lati del Parco, riducendone la vastità...". Nel 1915 dalla Deputazione Provinciale la Villa fu adibita a
ricovero per malati di mente in attesa di definitiva sistemazione nell'Istituto Psichiatrico Paolo Pini ed il maestoso Parco venne affidato alle loro cure. Ora la superficie totale risulta di mq 81.543, di cui 2.925 coperti.
Proprietari e passaggi di proprietà:
Villa Litta fu eretta nel 1687 dal Marchese Pietro Paolo Corbella. Nel 1700 gli succedette il figlio Carlo che muore nel 1754; gli succede il figlio Luigi al quale succede l'unica figlia Barbara Marianna, la sposa ventenne del Conte Francesco d'Adda, al
quale passa la proprietà della Villa in seguito all'immatura scomparsa della consorte. In seconde nozze il Conte d'Adda sposa Donna Teresa Litta che eredita la proprietà al decesso del consorte. E' questo il periodo di maggior
splendore della Villa. Donna Teresa, nel 1782, in seconde nozze, unisce la ama del proprio casato - Litta Visconti Arese - a quello del Marchese Maurizio Gherardini di Verona, che compartecipa all'eredità della Villa. Alla morte del marchese subentra come erede la figlia Vittoria - sposa in prime nozze del Marchese Gerolamo Trivulzio ed in seconde nozze del Marchese Visconti d'Aragona Alessandro. Donna Vittoria muore a Parigi nel 1836, senza testamento. A questo punto il passaggio di proprietà della Villa avviene per acquisto e non per successione. Vi subentrano i Taccioli, famiglia di
banchieri di Milano, a seguito di asta pubblica. Luigi Taccioli, morto in Affori nel 1847, lascia in eredità ai figli Enrico e Gaetano, il patrimonio. Spartitasi la proprietà, questa passa a Enrico che, alla propria morte, la cede alla figlia Margherita, la quale nel 1873 va in sposa al nobile Litta Modignani Giovanni. Morta Margherita nel 1882, la Villa passa al Litta Modignani che, pochi giorni prima della propria morte, nel 1905, essendo senza discendenti diretti e per evitare eccessivi oneri successori ai nipoti (figli di Luigi e di Paolo), cede la proprietà all'Amministrazione Provinciale di Milano, la quale in seguito, nel 1927, la cede in proprietà al Comune di Milano.
L'antica Chiesina di San Mamete
Chiesina dedicata al martire giovinetto S. Mamete, era già esistente nell'anno mille, ma non ci sono prove certe che testimonino da chi sia stato costruito. Era posto all'incrocio della strada romana che costeggiava torrenti e fontanili con la strada che proveniva da Villapizzone (via Chiasserini). Delle diverse cappelle devozionali antiche erette in
Affori, solo questa e quella dedicata a S. Giustina sono sopravvissute, l'ultima però assorbita in una chiesa costruita nel 1400 e a sua volta sostituita con la vecchia chiesa (ora in piazzetta Cialdini) nel '500. Non è dato sapere come sia nata la devozione al giovane martire di Cesarea di Cappadocia (Asia Minore). Tale chiesina ha vissuto secoli di crescente
notorietà i cui echi si sono spenti nei passati anni '60, in un inspiegabile declino. In un documento si legge che nel 1807 vi si poteva ammirare: "...il coro, prezioso e originario avanzo del secolo decimo. Uno dei pochi resti è un dipinto a fresco, discretamente conservato e che si ammira ancora nel lato del vangelo, oltre la marmorea balaustra del 1700. Rappresenta il Santo giovinetto Mamete, umile nel portamento, ma fiero della sua fede per la quale diede la vita; viso angelico, leggermente inclinato, capelli biondi incorniciati da un'aureola a tutto fondo; per fattura tecnica il dipinto si dimostra eseguito nella prima metà del 1400". In un altro documento del 1745 si legge: "...L'abside tutta dipinta a toni or vivi, or pallidi, or smorzati nella penombra, or ravvivati da un fascio di luce che, irrompendo al levar del sole nella lunetta del coro, faceva spiccare, mettendole in risalto, le aureole degli affreschi, il soffitto in legno ricoperto, secondo il gusto della seconda metà del 1400, con carte colorate dai raggi solari, dale stelle in oro, dai nastri svolazzanti con scritti motti biblici". Negli antichi documenti del dossier di S. Mamete si narra altresì del piccolo oratorio e della festa annuale che si celebrava a cui accorreva moltissima gente dei paesi circostanti. Solennità religiosa, incontro amichevole e scambio di notizie e commerci dei prodotti locali, durava una settimana e culminava il 16 agosto, in simbiosi con la tradizionale festa di S. Rocco (molto caro alle popolazioni contadine). A tutela della chiesina i Parroci di Affori sin dal 1500 vi avevano insediato "eremita" che abitava gli apposite locali incorporati nell'edificio e svolgeva mansioni di sagrestano e custode.
Tuttavia da qualche decennio a questa parte non vi è più alcun stabile custode e l'ultima delle famiglie afforesi a svolgere tale mansione fu la famiglia Santambrogio. Tale era la notorietà della chiesina che nel 1671 il dottore della Biblioteca Ambrosiana di Milano, Giuseppe Valvassori, fece pubblicate un libretto in cui narrava la vita del Santo e del "famoso
oratorio di S. Mamete", assecondando il desiderio del Rev. Don Francesco Maria Ferrario, curato di Affori. Infatti in quegli anni il Parroco Ferrario stava restaurando la cappella ormai cadente e vi faceva erigere l'altare in stile barocco, ancor oggi esistente, trasportandovi uno dei dipinti murali come pala d'altare, dipinto purtroppo andato perduto. Nel 1706 il Parroco
Gian Battista Motta compie un altro restauro (balaustra, pavimentazione, capriate del soffitto). Nella prima metà dell'800 il Parroco Astesani, illustre e competente studioso d'arte e archeologia, vi fece seppellire I propri genitori. Imitandone l'esempio, la nobile famiglia Litta Gherardini, proprietaria della Villa e di gran parte di Affori, vi faceva seppellire
Donna Teresa Litta Arese. Un'opera di restauro compì anche il Parroco Tognola che rifece le strutture e rivitalizzò la "festa", che tornò importante almeno fino alla sua morte nel 1964. Risistemò la piazzetta antistante la chiesa e la recinse, come pure il "vignolo" annesso, e rinnovò la nicchia del Santo. Grazie alla sua competenza in campo artistico, fu in grado di
scoprire, sotto affrescature settecentesche, preziosi affreschi del sec. XII e XVI, che ne attestano l'antichità. Solo i restauri del 1985 voluti e intrapresi dal Parroco Enrico Alberti, hanno riportato un po' di dignità all'edificio. Purtroppo oggi, in seguito ad interventi amministrativi della Curia milanese, la chiesetta è passata in cura alla Parrocchiale di S.
Filippo Neri (quartiere Bovisasca).
Chiesina dedicata al martire giovinetto S. Mamete, era già esistente nell'anno mille, ma non ci sono prove certe che testimonino da chi sia stato costruito. Era posto all'incrocio della strada romana che costeggiava torrenti e fontanili con la strada che proveniva da Villapizzone (via Chiasserini). Delle diverse cappelle devozionali antiche erette in
Affori, solo questa e quella dedicata a S. Giustina sono sopravvissute, l'ultima però assorbita in una chiesa costruita nel 1400 e a sua volta sostituita con la vecchia chiesa (ora in piazzetta Cialdini) nel '500. Non è dato sapere come sia nata la devozione al giovane martire di Cesarea di Cappadocia (Asia Minore). Tale chiesina ha vissuto secoli di crescente
notorietà i cui echi si sono spenti nei passati anni '60, in un inspiegabile declino. In un documento si legge che nel 1807 vi si poteva ammirare: "...il coro, prezioso e originario avanzo del secolo decimo. Uno dei pochi resti è un dipinto a fresco, discretamente conservato e che si ammira ancora nel lato del vangelo, oltre la marmorea balaustra del 1700. Rappresenta il Santo giovinetto Mamete, umile nel portamento, ma fiero della sua fede per la quale diede la vita; viso angelico, leggermente inclinato, capelli biondi incorniciati da un'aureola a tutto fondo; per fattura tecnica il dipinto si dimostra eseguito nella prima metà del 1400". In un altro documento del 1745 si legge: "...L'abside tutta dipinta a toni or vivi, or pallidi, or smorzati nella penombra, or ravvivati da un fascio di luce che, irrompendo al levar del sole nella lunetta del coro, faceva spiccare, mettendole in risalto, le aureole degli affreschi, il soffitto in legno ricoperto, secondo il gusto della seconda metà del 1400, con carte colorate dai raggi solari, dale stelle in oro, dai nastri svolazzanti con scritti motti biblici". Negli antichi documenti del dossier di S. Mamete si narra altresì del piccolo oratorio e della festa annuale che si celebrava a cui accorreva moltissima gente dei paesi circostanti. Solennità religiosa, incontro amichevole e scambio di notizie e commerci dei prodotti locali, durava una settimana e culminava il 16 agosto, in simbiosi con la tradizionale festa di S. Rocco (molto caro alle popolazioni contadine). A tutela della chiesina i Parroci di Affori sin dal 1500 vi avevano insediato "eremita" che abitava gli apposite locali incorporati nell'edificio e svolgeva mansioni di sagrestano e custode.
Tuttavia da qualche decennio a questa parte non vi è più alcun stabile custode e l'ultima delle famiglie afforesi a svolgere tale mansione fu la famiglia Santambrogio. Tale era la notorietà della chiesina che nel 1671 il dottore della Biblioteca Ambrosiana di Milano, Giuseppe Valvassori, fece pubblicate un libretto in cui narrava la vita del Santo e del "famoso
oratorio di S. Mamete", assecondando il desiderio del Rev. Don Francesco Maria Ferrario, curato di Affori. Infatti in quegli anni il Parroco Ferrario stava restaurando la cappella ormai cadente e vi faceva erigere l'altare in stile barocco, ancor oggi esistente, trasportandovi uno dei dipinti murali come pala d'altare, dipinto purtroppo andato perduto. Nel 1706 il Parroco
Gian Battista Motta compie un altro restauro (balaustra, pavimentazione, capriate del soffitto). Nella prima metà dell'800 il Parroco Astesani, illustre e competente studioso d'arte e archeologia, vi fece seppellire I propri genitori. Imitandone l'esempio, la nobile famiglia Litta Gherardini, proprietaria della Villa e di gran parte di Affori, vi faceva seppellire
Donna Teresa Litta Arese. Un'opera di restauro compì anche il Parroco Tognola che rifece le strutture e rivitalizzò la "festa", che tornò importante almeno fino alla sua morte nel 1964. Risistemò la piazzetta antistante la chiesa e la recinse, come pure il "vignolo" annesso, e rinnovò la nicchia del Santo. Grazie alla sua competenza in campo artistico, fu in grado di
scoprire, sotto affrescature settecentesche, preziosi affreschi del sec. XII e XVI, che ne attestano l'antichità. Solo i restauri del 1985 voluti e intrapresi dal Parroco Enrico Alberti, hanno riportato un po' di dignità all'edificio. Purtroppo oggi, in seguito ad interventi amministrativi della Curia milanese, la chiesetta è passata in cura alla Parrocchiale di S.
Filippo Neri (quartiere Bovisasca).
La Tavola della Vergine delle Rocce
Racconto tratto da uno scritto di Annoni: "Viene donato da Luigi Taccioli con testamento del 10 settembre 1844 a questa
Parrocchiale, ma di esso non se ne conosce l'autore. Collocata sull'altare di cui gli eredi Taccioli nel 1861 fecero dono alla Parrocchiale, la Tavola venne sempre tenuta in grande venerazione. Nel 1882 l'Abate Malvezzi esprimeva il parere che esso fosse opera (sia pure diretta e coadiuvata dallo stesso Leonardo) del pittore Marco D'Oggiono. Solo nel 1901 lo studioso Annoni si accorse dell'eccellenza e bellezza del dipinto, pregando così l'amico Emilio Anderloni, esperto fotografo, di eseguire una fotografia dello stesso. Dopo che Annoni mostrò la foto al critico Diego Sant'Ambrogio, essi
venne a vedere il quadro e ne rimase entusiasmato. Intanto quella fotografia venne da lui mostrata e inviata ai più dotti ed illustri critici, anche stranieri. A rendere maggiormente noto il dipinto contribuirono le Cartoline Postali che il dott. Sant'Ambrogio pubblicava nello stesso anno. Uno dei primi a visitare il dipinto fu un critico straniero, Diner Denes di Budapest. Ma già il 31 marzo s'era accertato il carattere leonardesco del dipinto, e ne "La Lega Lombarda" il 22 aprile ne veniva pubblicata dal dott. Sant'Ambrogio la prima notizia. Diner Denes, osservando abbastanza bene il dipinto, ne fu
talmente entusiasta da pubblicarne le qualità su riviste d'oltralpe. Il quadro fu visitato da altri studiosi, quali il Cav. Donato Barcaglia, valente scultore, il Dott. Cav. Edoardo Linduer, Gustavo Schlosser, Direttore dei Musei Imperiali, il critico francese Marcel Reymond, il Cav. Hans Semper, professore d'Arte all'Università di Innsbruck, che lodarono il
dipinto e la maestria con cui era stato realizzato. Il 22 settembre venne ad Affori Felix Possart, illustre pittore che aveva eseguito per l'Imperatore Guglielmo II di Germania un quadro rappresentante l'entrata di Cristo in Gerusalemme, che affermò che in esso si rivelavano facilmente tutti I caratteri di Leonardo, ed osservò la gran rassomiglianza del volto della
Vergine col Cristo del Cenacolo vinciano. Il 26 venne il Comm. Luca Beltrami, che dopo aver espresso il dubbio che nella Tavola vi sia qualche ritocco, affermò le teste essere di certo di Leonardo, esaltando come di grandissimo pregio il nostro quadro". Nel 1951 fa testo il saggio edito da "Pitture e Sculture nelle chiese di Milano" a firma della prof.ssa Eva Tea,
esperta critica d'arte e una delle più appassionate ammiratrici della nostra Tavola. Essa narra la vicenda del progetto leonardesco di una Tavola da dipingere per i Fratelli della Concezione e da collocarsi nella Cappella di loro proprietà nella maestosa chiesa milanese di S. Francesco Grande, secondo un contratto del 1483, vicenda complessa che si trascinò per oltre 20 anni. La storia narra di come sono nate le due pale raffiguranti la scena della Vergine col Bambino in una grotta, possedute da Parigi e Londra, ma delle quali solo la prima mostra i segni dell'autenticità artistica leonardesca, mentre la seconda ha chiare caratteristiche del pennello del Preda, socio di Leonardo in questo lavoro. Il nostro quadro, in base alla
teoria di Eva Tea, è nato tra le due pale di Parigi (circa 1493) e di Londra (circa 1507).
Racconto tratto da uno scritto di Annoni: "Viene donato da Luigi Taccioli con testamento del 10 settembre 1844 a questa
Parrocchiale, ma di esso non se ne conosce l'autore. Collocata sull'altare di cui gli eredi Taccioli nel 1861 fecero dono alla Parrocchiale, la Tavola venne sempre tenuta in grande venerazione. Nel 1882 l'Abate Malvezzi esprimeva il parere che esso fosse opera (sia pure diretta e coadiuvata dallo stesso Leonardo) del pittore Marco D'Oggiono. Solo nel 1901 lo studioso Annoni si accorse dell'eccellenza e bellezza del dipinto, pregando così l'amico Emilio Anderloni, esperto fotografo, di eseguire una fotografia dello stesso. Dopo che Annoni mostrò la foto al critico Diego Sant'Ambrogio, essi
venne a vedere il quadro e ne rimase entusiasmato. Intanto quella fotografia venne da lui mostrata e inviata ai più dotti ed illustri critici, anche stranieri. A rendere maggiormente noto il dipinto contribuirono le Cartoline Postali che il dott. Sant'Ambrogio pubblicava nello stesso anno. Uno dei primi a visitare il dipinto fu un critico straniero, Diner Denes di Budapest. Ma già il 31 marzo s'era accertato il carattere leonardesco del dipinto, e ne "La Lega Lombarda" il 22 aprile ne veniva pubblicata dal dott. Sant'Ambrogio la prima notizia. Diner Denes, osservando abbastanza bene il dipinto, ne fu
talmente entusiasta da pubblicarne le qualità su riviste d'oltralpe. Il quadro fu visitato da altri studiosi, quali il Cav. Donato Barcaglia, valente scultore, il Dott. Cav. Edoardo Linduer, Gustavo Schlosser, Direttore dei Musei Imperiali, il critico francese Marcel Reymond, il Cav. Hans Semper, professore d'Arte all'Università di Innsbruck, che lodarono il
dipinto e la maestria con cui era stato realizzato. Il 22 settembre venne ad Affori Felix Possart, illustre pittore che aveva eseguito per l'Imperatore Guglielmo II di Germania un quadro rappresentante l'entrata di Cristo in Gerusalemme, che affermò che in esso si rivelavano facilmente tutti I caratteri di Leonardo, ed osservò la gran rassomiglianza del volto della
Vergine col Cristo del Cenacolo vinciano. Il 26 venne il Comm. Luca Beltrami, che dopo aver espresso il dubbio che nella Tavola vi sia qualche ritocco, affermò le teste essere di certo di Leonardo, esaltando come di grandissimo pregio il nostro quadro". Nel 1951 fa testo il saggio edito da "Pitture e Sculture nelle chiese di Milano" a firma della prof.ssa Eva Tea,
esperta critica d'arte e una delle più appassionate ammiratrici della nostra Tavola. Essa narra la vicenda del progetto leonardesco di una Tavola da dipingere per i Fratelli della Concezione e da collocarsi nella Cappella di loro proprietà nella maestosa chiesa milanese di S. Francesco Grande, secondo un contratto del 1483, vicenda complessa che si trascinò per oltre 20 anni. La storia narra di come sono nate le due pale raffiguranti la scena della Vergine col Bambino in una grotta, possedute da Parigi e Londra, ma delle quali solo la prima mostra i segni dell'autenticità artistica leonardesca, mentre la seconda ha chiare caratteristiche del pennello del Preda, socio di Leonardo in questo lavoro. Il nostro quadro, in base alla
teoria di Eva Tea, è nato tra le due pale di Parigi (circa 1493) e di Londra (circa 1507).
La Parrocchiale S. Giustina
Costruita nella prima metà del '500 (su di un'altra chiesa preesistente) sul luogo ove sorgeva l'antica cappella dedicata a S.
Giustina, venne rattoppata da artigianali restauri lungo i secoli e, in occasione della Visita Pastorale dell'Arcivescovo Carlo Borromeo nel 1568, fu giudicata da ripararsi per creare nuovo spazio. Sino al 1811 infatti la chiesa non solo era angusta, ma puro lo era la piazza antistante, occupata dal classico cimitero di campagna. Fu il Parroco Astesani ad affrontare il
problema sottoponendolo ai nobili e proprietari di terreni afforesi affinché contribuissero a risolvere il problema annoso, considerando gli scarsi mezzi a disposizione dei Fabbriceri. Un accorato appello nel 1815 lanciato alla popolazione d'ogni classe e veto riuscì a mettere in moto una corale opera che, a distanza di un secolo e mezzo, mostra la buona volontà degli afforesi. Ma inizialmente non ci fu comune accordo e la questione venne dibattuta lungamente, con la presentazione di vari disegni di allungamento della chiesa, finché non giunse alla decisione di costruire una nuova chiesa in un luogo più opportuno. Dopo altri vent'anni di tentativi, nel 1857 il Parroco Giovanni Panceri scrive al Vicario Arcivescovile di Milano per annunciargli la prossima costruzione della nuova chiesa, progetto affidato all'Arch. Giacomo Moraglia. Con l'aiuto della comunità fu acquistato un terreno appartenente a Marietta Osculati in Brigola, mentre la costruzione fu a carico del Comune con l'aiuto degli Afforesi più abbienti. La prima pietra fu posta domenica 15 marzo 1857, e già a settembre si scorgevano i muri di sostegno. Nella primavera del 1859 era quasi completata, ad eccezione dell'altare maggiore (pronto solamente nel 1862), donato da Giulia Clerichetti Taccioli. Ci vollero ancora anni per arrivare al suo completamento.
L'interno e le opere: Sotto le ampie volte in perfetto stile neoclassico, inizialmente non c'era il complesso dell'altare
maggiore e nemmeno alcuna decorazione alle pareti. Solo in un secondo tempo apparvero disegni ornamentali a motivi geometrici lungo le pareti e I cornicioni. Ma solo negli anni '20 del nostro secolo si potrà ammirare una completa essenziale decorazione. Mancavano altresì le balaustre in marmo, I pulpiti in legno dorato, i due grandi affreschi laterali. Semplice nelle linee con le quali gradualmente si eleva fino a culminare nello svettante e classico tempietto, sormontato da una statua del Redentore benedicente, l'altare occupa con maestosità il centro ideale della costruzione. Costruito
in pregiato marmo bianco su disegno dell'arch. Luigi Clerichetti, nel 1870 vi venne collocata la famosa Tavola. Ai lati, in posizione simmetrica, due angli di ottima fattura dello scultore Luigi Marchesi di Viggiù, sostano in atteggiamento orante. In occasione di solennità, feste o riti, fanno loro compagnia e decoro pregevoli candelieri dell'800, quattro statue in metallo dorato di metri 2,25, raffiguranti i Santi Carlo, Ambrogio, Barnaba e Agostino, donate dal Cav. Gaetano Dacomo e realizzate dalla Broggi. In speciali occasioni concorrono anche artistici reliquari argentati a palmetta, a croce, ad urna, ad albero ed a mezzo busto. L'artistica sedia presbiteriale: Situata nell'abside e attorniata dagli stalli del coro ligneo, apolavoro dell'artigianato del '500, troneggia ancora oggi affiancata da artistiche sedie d'epoca in ottimo noce. E' una sedia monumentale da cerimonia, destinata ad ecclesiastico d'alto rango in occasione di solenni funzioni religiose. Ha una base di cm 113, cm 67 di larghezza e cm 280 di altezza. E' costruita in pregiato legno di stagionato noce scuro ad intagli nella spalliera, a quadrati e piastrelli nella volta a tutto tondo, con quattro medaglioni all'esterno raffiguranti, in basso, due profeti dell'Antico Testamento ed in alto S. Giovanni Battista e S. Ambrogio; due piccoli tondi frontali raffigurano l'Angelo nunciante e Maria SS. Si potrebbe definirne l'esecuzione nel primo Cinquecento con alcuni ritocchi e modifiche apportate in epoche successive.
L'organo Amati di Pavia: Installato nel 1884, in sostituzione dell'ormai vetusto organo già presente nella vecchia chiesa,
per volere del nuovo Parroco, don Paolo Giorgetti, il quale venne a conoscenza che nella Cattedrale di Pavia si stesse sostituendo il vecchio Organo Amati con uno nuovo offerto dal mecenate pavese Lingiardi. Gli Amati furono una celebre famiglia di liutai cremonesi, fiorita tra il 1500 ed il 1700, maestri degli altrettanti famosi Stradivari e Guarneri, parenti di
Antonio ed Angelo Amati di Pavia, due organari lombardi della prima metà del '700. Il nostro strumento porta come data di nascita il "1810", stampata su di una targhetta inserita sopra la tastiera, ed è attribuito a Luigi Amati (morto nel 1829). Acquistato dalla comunità per un notevole prezzo, venne restaurato, accordato ed integrato dal perito Marelli. Dopo tante peripezie, il 12 ottobre 1884, domenica, l'organo fece vibrare tutta la sua Potenza nell'attuale Parrocchiale.
L'interno della Parrocchiale e le opera custodite: 43 metri ci separano dal semicatino sovrastante l'altare
maggiore, affrescato dal pittore Carlo Cocquio di Varese nel 1946 e raffigurante la gloria di Cristo attorniato da angeli e dai Santi. Dello stesso pittore possiamo ammirare altri affreschi: quattro nelle transenne laterali (1942), sulle facciate delle cappelle della B. Vergine e di S. Giuseppe e soprattutto la grande cupola, detta "il cupolone", ove vi è raffigurata la gloria di S. Giustina (1946). Anche nell'abside si possono ammirare due affreschi dedicati alla Santa Patrona. Dello stesso artista
anche la "Via Crucis": 14 quadri dipinti ad olio e donati al Parroco Mons. ognola. Nelle quattro vele che incoronano la cupola vediamo affrescati I Quattro Evangelisti: è tutto ciò che rimane della vecchia decorazione della Parrocchiale, restaurata dopo il bombardamento del 1944. La prima decorazione globale fu affidata al pittore Archimede Albertazzi nel 1927. Alcuni anni fa è stato rinvenuto un altro affresco dell'Albertazzi, nel battistero, raffigurante il battesimo di Cristo, rimasto per anni nascosto dietro una tela della fine del '500. Ai lati dell'altare maggiore spiccano due grandi
affreschi, fatti restaurare dal Parroco Mons. Franco Verzeleri: quello di sinistra rappresenta un episodio realmente avvenuto durante la peste a Milano nel Lazzaretto, in cui un appestato moribondo, ritenuto morto, abbandonato
tra i cadaveri, si solleva ed invoca il Viatico che gli viene porto da un frate cappuccino. Il suo desiderio viene espresso con la frase "ancora una volta" divenuta quasi un motto. L'autore dell'affresco è il pittore Davide Beghé nel 1902. Di fronte ad esso si trova l'affresco opera di Luigi Valtorta, maestro del Beghé, raffigurante l'istituzione delle "SS. Quarantore" da parte di S. Antonio Maria Zaccaria. Un'ottima pala, dipinta da una scuola lombarda di fine '500 e situata fino a qualche tempo fa nel battistero, raffigura il battesimo di Gesù. Fu donata dal Cav. Attilio Prandoni nel 1939 e restaurata dal prof. Mario Rossi di Milano. Un'altra pala degna di nota raffigurante la visita di Maria alla cugina Elisabetta, proviene da una scuola veneziana del '700 e fu donata al parroco don Tognola il quale la fece restaurare dal suddetto prof. Rossi. Ci sono
altri dipinti raffiguranti S. Pietro, S. Francesco Saverio, S. Carlo, S. Luigi Gonzaga, il martirio di S. Sebastiano, S. Anna con Maria SS., la Sacra Famiglia, il ritratto di Paolo VI di Dernini, la B. Vergine in preghiera. In sagrestia si può ammirare inoltre una tela di provenienza russa donata dalla Famiglia Oppici di Affori al Parroco Tognola nel 1946 e originaria della fine del '500, raffigurante la Deposizione di Gesù dalla Croce, sorretto da Giuseppe d'Arimatea (che ha donato a Gesù il suo sepolcro) e non da Maria SS. come solitamente viene messa dall'iconografia tradizionale. Ai lati della suddetta tela si trovavano due "Angeli del dolore", dipinti dal pittore afforese rag. Soffredi. Di pregio artistico è pure un bassorilievo in marmot bianco di S. Teresina, opera dello scultore Giannino Castiglioni, donata dalle sorelle Annoni negli anni '30. Sulla facciata della Parrocchiale possiamo ammirare i tre stupendi e artistici portali in bronzo di cui quello centrale e quello di sinistra sono opera dello scultore Pietro Zegna (inaugurati rispettivamente nel 1990 e nel 1992), mentre quello di destra
è opera dello scultore G. Abram (inaugurato nel 1991).
Il campanile: Mentre sulla planimetria del 1856 gli era stata assegnata la posizione sul lato sinistro del complesso, in
seguito il progetto venne modificato e fu posizionato sul lato opposto. Atteso per ben 15 anni, solo nel 1873 si diede inizio alla sua costruzione su disegno dell'Ingegnere Luigi Annoni. Due anni dopo il collaudo venne arricchita di un armonioso concerto di cinque campane. La cuspide venne terminata in seguito. Il 27 novembre 1942 le cinque campane vennero sequestrate per causa bellica e riposizionate il 20 giugno 1948 con la benedizione del Card. Schuster. La più maestosa delle cinque, chiamata "campanone", pesa ben 18 quintali e si dovettero eseguire opere di rinforzo
al castello.
Costruita nella prima metà del '500 (su di un'altra chiesa preesistente) sul luogo ove sorgeva l'antica cappella dedicata a S.
Giustina, venne rattoppata da artigianali restauri lungo i secoli e, in occasione della Visita Pastorale dell'Arcivescovo Carlo Borromeo nel 1568, fu giudicata da ripararsi per creare nuovo spazio. Sino al 1811 infatti la chiesa non solo era angusta, ma puro lo era la piazza antistante, occupata dal classico cimitero di campagna. Fu il Parroco Astesani ad affrontare il
problema sottoponendolo ai nobili e proprietari di terreni afforesi affinché contribuissero a risolvere il problema annoso, considerando gli scarsi mezzi a disposizione dei Fabbriceri. Un accorato appello nel 1815 lanciato alla popolazione d'ogni classe e veto riuscì a mettere in moto una corale opera che, a distanza di un secolo e mezzo, mostra la buona volontà degli afforesi. Ma inizialmente non ci fu comune accordo e la questione venne dibattuta lungamente, con la presentazione di vari disegni di allungamento della chiesa, finché non giunse alla decisione di costruire una nuova chiesa in un luogo più opportuno. Dopo altri vent'anni di tentativi, nel 1857 il Parroco Giovanni Panceri scrive al Vicario Arcivescovile di Milano per annunciargli la prossima costruzione della nuova chiesa, progetto affidato all'Arch. Giacomo Moraglia. Con l'aiuto della comunità fu acquistato un terreno appartenente a Marietta Osculati in Brigola, mentre la costruzione fu a carico del Comune con l'aiuto degli Afforesi più abbienti. La prima pietra fu posta domenica 15 marzo 1857, e già a settembre si scorgevano i muri di sostegno. Nella primavera del 1859 era quasi completata, ad eccezione dell'altare maggiore (pronto solamente nel 1862), donato da Giulia Clerichetti Taccioli. Ci vollero ancora anni per arrivare al suo completamento.
L'interno e le opere: Sotto le ampie volte in perfetto stile neoclassico, inizialmente non c'era il complesso dell'altare
maggiore e nemmeno alcuna decorazione alle pareti. Solo in un secondo tempo apparvero disegni ornamentali a motivi geometrici lungo le pareti e I cornicioni. Ma solo negli anni '20 del nostro secolo si potrà ammirare una completa essenziale decorazione. Mancavano altresì le balaustre in marmo, I pulpiti in legno dorato, i due grandi affreschi laterali. Semplice nelle linee con le quali gradualmente si eleva fino a culminare nello svettante e classico tempietto, sormontato da una statua del Redentore benedicente, l'altare occupa con maestosità il centro ideale della costruzione. Costruito
in pregiato marmo bianco su disegno dell'arch. Luigi Clerichetti, nel 1870 vi venne collocata la famosa Tavola. Ai lati, in posizione simmetrica, due angli di ottima fattura dello scultore Luigi Marchesi di Viggiù, sostano in atteggiamento orante. In occasione di solennità, feste o riti, fanno loro compagnia e decoro pregevoli candelieri dell'800, quattro statue in metallo dorato di metri 2,25, raffiguranti i Santi Carlo, Ambrogio, Barnaba e Agostino, donate dal Cav. Gaetano Dacomo e realizzate dalla Broggi. In speciali occasioni concorrono anche artistici reliquari argentati a palmetta, a croce, ad urna, ad albero ed a mezzo busto. L'artistica sedia presbiteriale: Situata nell'abside e attorniata dagli stalli del coro ligneo, apolavoro dell'artigianato del '500, troneggia ancora oggi affiancata da artistiche sedie d'epoca in ottimo noce. E' una sedia monumentale da cerimonia, destinata ad ecclesiastico d'alto rango in occasione di solenni funzioni religiose. Ha una base di cm 113, cm 67 di larghezza e cm 280 di altezza. E' costruita in pregiato legno di stagionato noce scuro ad intagli nella spalliera, a quadrati e piastrelli nella volta a tutto tondo, con quattro medaglioni all'esterno raffiguranti, in basso, due profeti dell'Antico Testamento ed in alto S. Giovanni Battista e S. Ambrogio; due piccoli tondi frontali raffigurano l'Angelo nunciante e Maria SS. Si potrebbe definirne l'esecuzione nel primo Cinquecento con alcuni ritocchi e modifiche apportate in epoche successive.
L'organo Amati di Pavia: Installato nel 1884, in sostituzione dell'ormai vetusto organo già presente nella vecchia chiesa,
per volere del nuovo Parroco, don Paolo Giorgetti, il quale venne a conoscenza che nella Cattedrale di Pavia si stesse sostituendo il vecchio Organo Amati con uno nuovo offerto dal mecenate pavese Lingiardi. Gli Amati furono una celebre famiglia di liutai cremonesi, fiorita tra il 1500 ed il 1700, maestri degli altrettanti famosi Stradivari e Guarneri, parenti di
Antonio ed Angelo Amati di Pavia, due organari lombardi della prima metà del '700. Il nostro strumento porta come data di nascita il "1810", stampata su di una targhetta inserita sopra la tastiera, ed è attribuito a Luigi Amati (morto nel 1829). Acquistato dalla comunità per un notevole prezzo, venne restaurato, accordato ed integrato dal perito Marelli. Dopo tante peripezie, il 12 ottobre 1884, domenica, l'organo fece vibrare tutta la sua Potenza nell'attuale Parrocchiale.
L'interno della Parrocchiale e le opera custodite: 43 metri ci separano dal semicatino sovrastante l'altare
maggiore, affrescato dal pittore Carlo Cocquio di Varese nel 1946 e raffigurante la gloria di Cristo attorniato da angeli e dai Santi. Dello stesso pittore possiamo ammirare altri affreschi: quattro nelle transenne laterali (1942), sulle facciate delle cappelle della B. Vergine e di S. Giuseppe e soprattutto la grande cupola, detta "il cupolone", ove vi è raffigurata la gloria di S. Giustina (1946). Anche nell'abside si possono ammirare due affreschi dedicati alla Santa Patrona. Dello stesso artista
anche la "Via Crucis": 14 quadri dipinti ad olio e donati al Parroco Mons. ognola. Nelle quattro vele che incoronano la cupola vediamo affrescati I Quattro Evangelisti: è tutto ciò che rimane della vecchia decorazione della Parrocchiale, restaurata dopo il bombardamento del 1944. La prima decorazione globale fu affidata al pittore Archimede Albertazzi nel 1927. Alcuni anni fa è stato rinvenuto un altro affresco dell'Albertazzi, nel battistero, raffigurante il battesimo di Cristo, rimasto per anni nascosto dietro una tela della fine del '500. Ai lati dell'altare maggiore spiccano due grandi
affreschi, fatti restaurare dal Parroco Mons. Franco Verzeleri: quello di sinistra rappresenta un episodio realmente avvenuto durante la peste a Milano nel Lazzaretto, in cui un appestato moribondo, ritenuto morto, abbandonato
tra i cadaveri, si solleva ed invoca il Viatico che gli viene porto da un frate cappuccino. Il suo desiderio viene espresso con la frase "ancora una volta" divenuta quasi un motto. L'autore dell'affresco è il pittore Davide Beghé nel 1902. Di fronte ad esso si trova l'affresco opera di Luigi Valtorta, maestro del Beghé, raffigurante l'istituzione delle "SS. Quarantore" da parte di S. Antonio Maria Zaccaria. Un'ottima pala, dipinta da una scuola lombarda di fine '500 e situata fino a qualche tempo fa nel battistero, raffigura il battesimo di Gesù. Fu donata dal Cav. Attilio Prandoni nel 1939 e restaurata dal prof. Mario Rossi di Milano. Un'altra pala degna di nota raffigurante la visita di Maria alla cugina Elisabetta, proviene da una scuola veneziana del '700 e fu donata al parroco don Tognola il quale la fece restaurare dal suddetto prof. Rossi. Ci sono
altri dipinti raffiguranti S. Pietro, S. Francesco Saverio, S. Carlo, S. Luigi Gonzaga, il martirio di S. Sebastiano, S. Anna con Maria SS., la Sacra Famiglia, il ritratto di Paolo VI di Dernini, la B. Vergine in preghiera. In sagrestia si può ammirare inoltre una tela di provenienza russa donata dalla Famiglia Oppici di Affori al Parroco Tognola nel 1946 e originaria della fine del '500, raffigurante la Deposizione di Gesù dalla Croce, sorretto da Giuseppe d'Arimatea (che ha donato a Gesù il suo sepolcro) e non da Maria SS. come solitamente viene messa dall'iconografia tradizionale. Ai lati della suddetta tela si trovavano due "Angeli del dolore", dipinti dal pittore afforese rag. Soffredi. Di pregio artistico è pure un bassorilievo in marmot bianco di S. Teresina, opera dello scultore Giannino Castiglioni, donata dalle sorelle Annoni negli anni '30. Sulla facciata della Parrocchiale possiamo ammirare i tre stupendi e artistici portali in bronzo di cui quello centrale e quello di sinistra sono opera dello scultore Pietro Zegna (inaugurati rispettivamente nel 1990 e nel 1992), mentre quello di destra
è opera dello scultore G. Abram (inaugurato nel 1991).
Il campanile: Mentre sulla planimetria del 1856 gli era stata assegnata la posizione sul lato sinistro del complesso, in
seguito il progetto venne modificato e fu posizionato sul lato opposto. Atteso per ben 15 anni, solo nel 1873 si diede inizio alla sua costruzione su disegno dell'Ingegnere Luigi Annoni. Due anni dopo il collaudo venne arricchita di un armonioso concerto di cinque campane. La cuspide venne terminata in seguito. Il 27 novembre 1942 le cinque campane vennero sequestrate per causa bellica e riposizionate il 20 giugno 1948 con la benedizione del Card. Schuster. La più maestosa delle cinque, chiamata "campanone", pesa ben 18 quintali e si dovettero eseguire opere di rinforzo
al castello.
Monumenti dedicati ai caduti
Tutti i caduti afforesi delle due guerre mondiali sono elencati in alcune pergamene, accompagnate da una corona del Rosario, una pallottola ed una stelletta in dotazione al "regio esercito".
Su due lapidi marmoree, infisse alle pareti della nostra "Villa", sono altresì scolpiti a caratteri indelebili i nomi di
afforesi martiri della libertà e caduti per la patria, che la nostra Comunità vuole riproporre con orgoglio e riconoscenza alle generazioni presenti e future di cittadini. Le lapidi vennero inaugurate separatamente: il 4
novembre 1950 e il 25 aprile 1981.
Tutti i caduti afforesi delle due guerre mondiali sono elencati in alcune pergamene, accompagnate da una corona del Rosario, una pallottola ed una stelletta in dotazione al "regio esercito".
Su due lapidi marmoree, infisse alle pareti della nostra "Villa", sono altresì scolpiti a caratteri indelebili i nomi di
afforesi martiri della libertà e caduti per la patria, che la nostra Comunità vuole riproporre con orgoglio e riconoscenza alle generazioni presenti e future di cittadini. Le lapidi vennero inaugurate separatamente: il 4
novembre 1950 e il 25 aprile 1981.